Archivio mensile:aprile 2013

La trappola degli occhi.

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Comincerò da lontano – abbiate pazienza.

Molti anni fa, in una seduta del periodo della “ricostruzione” di un me stesso presentabile agli altri, il mio analista mi parlò della necessità di reimpossessarmi del mio corpo, di tornare ad avere una percezione di me stesso che non fosse mediata dai miei pensieri, dalle mie difese cerebrali (e cervellotiche), che non pemettesse il formarsi di barriere di nessun tipo tra il mondo circostante e il mio corpo.
Risposi con una faccia a dir poco dubbiosa, e metà tra la non comprensione di quelle parole e la non volontà di comprenderle del tutto. Mi uscì un prudente “sì, vabbè, ma come?”
“Lorenzo, devi annà a balla’.”
“Eh?”
“Ballare. Musica, corpo, movimento. Niente parole, niente riflessione. Ballare.”
“Ma io non so ballare.”
“E certo che no. Appunto. ”
“Vabbé, ma cosa devo ballare? Devo prendere lezioni, andare in discoteca, cosa?”
“E che ne so io? Quello che ti viene più facile.  Vai.”

Avevo già troppa fiducia – ben consolidata da esperienze più dure e dolorose – in quell’uomo per dubitare minimamente di ciò che andava dicendo. Abbastanza sgomento affrontai il problema. Allora era di gran voga il revival anni ’70, e pareva che a Roma non si ballasse altro. Quindi quello fu il mio “ballare”.

Questo per dire perché quello è il mio paramentro di “ballo”, e perché parlo di trappola degli occhi. La bellezza del ballare non è certo percepibile con gli occhi – o meglio non quella bellezza. La danza che “si vede”, perché fatta alla luce – il balletto classico, il tango, il ballo acrobatico, e così via – hanno una componente normativa e coreografica che va vista (oltre che eseguita, se possibile, ma non è obbligatorio) per apprezzarne la bellezza. Ma quei balli che in genere si fanno in luoghi non illuminati – come il tipico dance floor nottuno – non preparano a una bellezza visibile, perché agli occhi quella bellezza non ha nulla da offrire. La dance, come altri generi di ballo, è inguardabile, quasi ridicola a vedersi, perché va eseguita e basta; la sua bellezza si sottrae alla vista per darsi nella performance di chi la esegue.

Certo il genere musicale può essere analizzato a fondo nelle sue componenti sociali e anche politiche – è stato fatto e l’ho fatto anche io, scoprendo una di quelle “storie sociali” che lascia sbalorditi in quanto a profondità e ricchezza di espressioni, agganci, capacità metaforica per diverse generazioni e diversi contenuti. Ma rimane il fatto che tutto ciò non spiega quanto ci sia di bello nell’abbandonarsi all’insensata gioia di Boogie Wonderland, alla chain reaction di Disco Inferno, alla frenesia di Spacer, alla lenta passione di More than a Woman.

Gli occhi, e il loro alleato il linguaggio, non possono niente on the floor, e liberarsi per qualche ora dalle loro corde è davvero bellissimo e sconvolgente.
Per me fu anche – ed è ancora, quando posso – salvifico.